Biella, 13 ottobre 2025

Dopo quasi un mese dal mio ritorno, finalmente ho avuto la forza di prendere un foglio, una penna, sedermi alla scrivania e cercare di racimolare tutti i pezzi per raccontare ciò che ho vissuto.

Così mi fermo un istante, chiudo gli occhi e mi immagino di nuovo lì: posso sentire l’odore di Africa, il rumore delle onde, percepire lo scorrere lento del tempo, vedere i suoi tramonti e quel suo cielo che sembra così incredibilmente vicino rispetto al nostro perché le sue stelle e la sua luna brillano molto di più. Penso alla sensazione di libertà, trasparenza e capacità che ho provato, al coraggio che ho ritrovato e alla commozione che almeno una volta al giorno era viva in me. Quest’ Africa che ho tanto sognato e che ho finalmente vissuto, assaporato e compreso nelle sue mille sfaccettature.

Siamo partiti il 18 agosto e dopo 2 voli, finalmente c’è stato l’incontro con la terra del Madagascar che è stato come una carezza. Appena atterrata mi sono sentita nel posto giusto, nonostante ad accoglierci sia stata una capitale in profonda confusione. Era già buio ma c’era gente ovunque, c’era tantissimo traffico. Ricordo questi bambini che correvano, correvano tra le auto in mezzo alla strada con i piedi nudi sull’asfalto freddo. Uno portava sulla schiena la sorellina che indossava un berretto verde. Aveva le mani aggrappate al finestrino della nostra auto e occhi che trasbordavano lacrime di un futuro incerto. Ci hanno seguito per un tratto di strada, ma piano piano che ci allontanavamo dal centro ci hanno lasciato andare.

Il lungo viaggio in auto per arrivare alla destinazione finale è stato parte integrante della nostra missione. Siamo passati dalla foresta all’oceano, da pioggia a sole in un attimo, paesaggi che non assomigliano lontanamente ai nostri, da cittadine stracolme di persone a zone in cui per chilometri e chilometri non c’era traccia di nessuno. Posti che ti fanno sentire così insignificante davanti alla grandezza del mondo. Bus e camion che trasportavano una quantità indefinita di gente ammassata una sopra l’altra, vestiti e panni stesi per terra aggiungevano colore alla natura africana. Abbiamo invaso la quotidianità, magari anche solo il tempo di n cenno di saluto con la mano, di chi vive molto diversamente da noi; mangiano ciò che allevano e coltivano; molti non sanno né leggere, né scrivere o non conoscono neanche la loro data di nascita. Persone che ti regalano un sorriso senza assolutamente niente in cambio e ho scoperto i volti di che sa parlare senza parlare. Il pianeta sì è lo stesso, ma i mondi sono completamente diversi.

“Lascia da parte la paura, fatti attraversare e trasportare, spogliati dei tuoi vestiti, perché in realtà siamo tutti uguali. Cerca di vedere attraverso gli occhi del cuore. ” Questo è quello che mi è stato consigliato prima di arrivare a Mananjary, precisamente nell’orfanotrofio di Tsarazaza, il posto che per noi è diventata casa. Non posso e non voglio dimenticare la sensazione che ho provato quando siamo scese dall’auto e siamo state accolte da urla di bambini che non aspettavano altro che il nostro arrivo. Abbracci, strette di mano e occhi che ci scrutavano con tanta curiosità. Toccavano tutti i nostri nei, i nostri tatuaggi e i nostri lunghi capelli0. La prima bambina che con tanta sicurezza è venuta da me è Minù, mi ha preso la mano e mi ha accompagnato a conoscere ogni angolo di quel luogo.

Devo ammettere che inizialmente avevo tanto timore. Mi sono sempre definita non brava con i bambini perché mi sono sempre auto paragonata agli altri. Di conseguenza non mi sentivo all’altezza neanche in quel contesto, soprattutto per una questione linguistica, ma con il passare dei giorni è uscita la vera me, mi sono liberata da ogni copertura e barriera, e non volevo più stare lontana da loro. La comunicazione è importante ma può avvenire anche tramite gesti o sguardi. Abbiamo ballato, abbiamo cantato sotto il sole caldo che ci riscaldava e il vento che soffiava, abbiamo giocato a calcio e ci siamo rotolate per terra con loro in mezzo al fango.

Per Natale quando avevo 7 anni, mi è stata regalata una cucina giocattolo bellissima dove passavo tutti i miei pomeriggi. A 22 anni mi rendo conto che sarebbe bastato un pezzo di legno con disegnati quattro fornelli e un po' di materiale trovato per terra nell’orto per fare il cosiddetto cibo finto e immaginarsi cuochi per un giorno. Potresti tirare fuori davvero qualsiasi cosa che loro trovano o inventano il modo per divertirsi. Occhi puri, gioia che nasce dal niente  e riempie ogni cosa. Ho visto bambini ridere per ore perché non si erano mai visti in foto.

Questi bambini mi hanno insegnato che se si vuole si può amare senza tanti ghirigori, senza toppe giustificazioni, senza troppe parole, in modo semplice e sincero. In particolare modo Olivia. Testa contro testa ci guardavamo negli occhi e facevamo quei discorsi che resteranno solo nostri per sempre. Una carezza, un abbraccio o un bacio mandato da lontano con la manina e passava tutto.  Per loro ero perfetta così, nonostante magari i cappelli scompigliati, i piedi neri dopo aver camminato scalza tutto il giorno, la faccia giù di morale o la testa completamente incasinata. Il regalo più grande è stata la possibilità di creare un legame vero e proprio con questi bimbi. Ci cercavano tutto il giorno. Dalla mattina svegliandoci urlando il nostro nome, alla sera dandoci il bacio della buonanotte.

Quando sono tornata mi è stata fatta la domanda “ma cosa hai fatto in Madagascar?” E può sembrare banale e scontato ma la risposta più esaustiva è che abbiamo portato affetto. Loro che non hanno nulla, ma ci hanno dato tutto. Loro per me sono stati generativi, hanno generato in me una versione che non ero neanche consapevole di possedere e che custodirò con molta cura.

Ci è stata data l’occasione anche di interfacciarci con una realtà ancora più lontana da quella che ormai era diventata la nostra quotidianità: il carcere in Madagascar. Era il 3 settembre. Ricordo il fumo, era ovunque. Mi sono sentita soffocare, oppressa. La prigione e il mondo esterno erano divisi semplicemente da un cancello di metallo. Appena sono entrata mi sono ritrovata davanti questa grande lavagna con disegnata una griglia e numeri sparsi. Indicava chi conteneva il carcere e il crimine per cui erano lì, quanti uomini, quante donne e quanti minori. 778 in totale. 0 decessi quel giorno. La prima sezione era dedicata agli uomini. Erano ovunque, sbucavano da ogni parte. Non c’era un ordine, un senso logico. Il nostro compito è stato quello di portare il dolce cucinato il giorno prima a che era sottopeso. Sono i parenti che portano da mangiare, ma chi non ha nessuno? Quanto può effettivamente un pezzo di torta e una bottiglia vuota migliorare la situazione? Gente sdraiata. Gente che faceva bollire l’acqua in pentoloni giganti. Gente che vendeva mucchietti di carbone o verdura. Camminavo lì in mezzo con i miei compagni, ma non sapevo dove guardare. Se dritto avanti a me oppure cercare di guardare qualcuno negli occhi, con il rischio di non dimenticarli mai più. Separati da una porta c’erano i minori,13 minori. Uno sulla mia sinistra accanto alla guardia suonava la chitarra. Una melodia che mi ha accompagnato nei passi pesanti e colmi di domande che mi hanno portato fino a lì. L’ultima sezione era dedicata alle donne. Molte di loro avevano la mia età, altre erano più grandi e c’erano 3 mamme con i loro bambini. Le hanno fatte mettere in fila.  3 file per cantare una canzone di ringraziamento per delle zanzariere che avevamo portato per proteggere i più piccoli durante la notte. Una canzone che echeggia ancora nella mia testa.

I giorni passavano e io avrei tanto voluto fermare il tempo per ricordarmi ogni sfumatura di quel posto e di quei bambini. E’ un pensiero ricorrente e i miei occhi brillano ancora quando ne parlo. Uno degli ultimi giorni, era l’8 settembre, Carela molto dolcemente si è seduta accanto a me, mi ha asciugato il viso e mi ha chiesto “ma sei triste?” Io ho cercato di spiegarle che piangevo dalla felicità di averli conosciuti. Era lì a sostenermi, senza alcun tipo di pregiudizio, ma era lì con me. Noi avremmo dovuto aiutare loro, ma ora posso affermare che quella che è stata aiutata sono io. Sono partita con l’obiettivo di portare solo me stessa, ma mi sono ritrovata con versioni di me che non conoscevo, accompagnata da volti, storie e silenzi che hanno lasciato ill segno. Quando ormai ci eravamo completamente ambientati, è stato il momento di doverli lasciare, ed ogni giorno pesa, quanto pesa.

Ma qui davanti a ciò che non avevo mai visto, alla vera povertà, alle malattie o ai problemi che in Occidente abbiamo quasi dimenticato c’è qualcosa che loro hanno e noi no: la capacità di vivere nel presente, la capacità di non dare nulla per scontato. Lasciare andare il passato e non rincorrere il futuro. Solo respirare, sentire ed essere qui e ora. E come dicono loro “mora mora” ovvero “piano piano”.

Delle volte diamo per scontato che viaggiare siano i luoghi, i posti o quello che uno vede, quando in realtà durante la missione ho capito che per me la verità è un’altra: i posti non esistono senza gente e senza storie. E’ quando i tuoi occhi non guardano soltanto, ma il tuo corpo senza accorgersene si intreccia ad altri corpi e vive. L’essenza della missione per me è questa: superare i confini, superare la paura di conoscere e sconfiggere gli schemi che ci hanno cucito addosso. Perché questo è uno dei modi più belli che abbiamo di vivere.

                                                                                                                                                                    Anna